L’Ipogeo Lagrasta nella tradizione canosina è detto anche l’Ipogeo del Tesoro a testimonianza della straordinarietà del suo corredo funebre.
Ripercorrere la storia della sua scoperta equivale a immergersi in un contesto storico (metà – fine ‘800) in cui è coinvolta una vasta pletora di personaggi tra i più disparati: dal proprietario del terreno in cui fu ritrovato, Vito Lagrasta, a studiosi come l’antichista napoletano Carlo Bonucci), Architetto Direttore dei Reali Scavi di Ercolano, Pompei e Pozzuoli, Architetto Direttore del Real Museo Borbonico, ed Ispettore dei Monumenti Storici, a tombaroli e commercianti di antichità senza scrupoli.
La cronologia della scoperta è raccolta in uno studio dell’Università degli Studi di Napoli disponibile in rete, che consiglio di leggere: L’antichistica napoletana alla vigilia dell’Unità: l’esperienza di Carlo Bonucci (1799-1870)” pp. 102 – 108. Un altro contributo importante alla storia dell’Ipogeo Lagrasta è stato dato dal prof. Giuseppe Morea, docente di lettere nella Scuola Media Statale “Giovanni Bovio” e dal 1978 al 1985, Preside presso la S.M.S. “Marconi”; è stato Ispettore onorario dell’Istituto Antichità ed Arte per la Provincia di Bari e Direttore del Museo Civico di Canosa. Ai suoi studi si deve la descrizione degli interni dell’Ipogeo pubblicata sul primo dei Quaderni del Centro Servizi Culturali di Canosa dal titolo “La Tutela del Patrimonio Artistico di Canosa” edito nel 1968 e disponibile on line qui. Di seguito un estratto.
Ipogeo Lagrasta I (..) Appena l’ipogeo fu scoperto, il governo borbonico inviò d’urgenza a Canosa, come rappresentante della Soprintendenza alle antichità di Napoli, l’arch. Carlo Bonucci, direttore degli scavi di Ercolano. Dalle relazioni del Bonucci, pubblicate sul «Poliorama Pittoresco» di Napoli, e da altre di altri studiosi di epoche diverse, è possibile ricavare un’ampia descrizione del monumento e degli oggetti che costituivano la suppellettile funeraria. Un vestibolo decorato di colonne offre l’accesso alle camere sepolcrali; queste erano le più nobili e le loro decorazioni erano sorprendenti per l’arte architettonica e per i dipinti. Un fregio di figure, rappresentanti vari compartimenti di interesse storico assai prezioso, dava leggiadria al vestibolo stesso. Le porte delle camere d’accesso sono alquanto più strette alla sommità, sullo stile egizio o greco primitivo, e si succedono come gli ingressi di tante abitazioni. Esse erano decorate da pilastri, a cui erano annesse alcune mezze colonne con scannellature poligone di ordine jonico; una leggiadra ghirlanda era scolpita fra le volute dei capitelli. Gli usci erano chiusi da porte di marmo ordinarie e costruite in modo da non permettere di essere più riaperte dopo che vi era stato deposto il defunto, per evitare ai profanatori e ai ladri di penetrare in questi edifizi funebri ricchi di oggetti preziosi e delle più rare produzioni dell’arte e dell’industria dell’epoca. Ognuno di questi ingressi offre il passaggio ad una stanza nobilmente coperta da un soffitto, dove si vedono le travi scolpite nel masso, in cui è incavato l’intero ipogeo.
Ipogeo Lagrasta I – Interni © Comune di Canosa di Puglia
Le travi erano dipinte a color del legno, mentre le pareti laterali erano rosse (tracce dei due colori sono ancora visibili). Una seconda stanza e talvolta una terza, con proporzioni che vanno più restringendosi, si succedono dopo la prima; comunicano fra loro per mezzo di porte anch’esse più strette alla sommità, secondo lo stile egizio. La volta di queste stanze è liscia e le pareti inornate. Un muretto parallelo a quello dell’ingresso principale divide la prima stanza dalla seconda ed era fregiato di colonne joniche e di pitture consistenti in due finestrini, o in diversi riquadri a fondo rosso e bianco; vi erano raffigurati uccelli dal volto umano e sirene dello stesso tipo di quelle che si trovano spesso sui vasi detti volgarmente egizi e dagli archeologi francesi creduti tirreno- fenici. Da questa stanza si comunicava con altri edifizi funebri per mezzo di altre porte di marmo situate agli angoli in basso delle pareti laterali.
Il plesso è formato da nove camere ed apparteneva ad una famiglia di grado elevato e potente. Nelle tre camere principali, oltre alle colonne e alle pitture, si poteva ammirare il pavimento « ricoperto da una tela d’oro » (si tratta certamente di una delle esagerazioni del Bonucci, che voleva forse parlare di un tappeto con intrecci di filo color oro?); al di sopra poggiava il letto funebre di bronzo dorato e adorno di statuette in avorio (tale è rappresentato in un disegno sul fasc. IV a. II della rivista « Apulia »). Gli scheletri delle donne avevano collane, orecchini, anelli, ed altri oggetti preziosi; le loro vesti erano ricamate con fili d’oro. Intorno al letto che sosteneva lo scheletro della fanciulla furono trovate ghirlande di olivo in sottili laminette d’oro tutte trapunte, e vicino ad altre statuette una tavola di marmo con bassi piedi, su cui era situata una grande quantità di piatti, bacinelle, coppe e lampade di vetro. (…)
Ipogeo Lagrasta I © Fondazione Archeologica Canosina e Canusium Chronicles
(…) I disegni e i fregi che componevano la suppellettile erano eseguiti a vari colori con pezzi a mosaico disseminati in oro e tutti lavorati con un’industria e con un’arte ignota ai moderni. Alcune statue, diversi vasi a forma d’otre, su ciascuno dei quali poggiavano in vari atteggiamenti circa quindici statuette ed infine altre grandi teste che sostenevano sirene, figure di sacerdotesse ed amorini, tutte di terracotta variamente e con somma grazia ed eleganza dipinte, erano collocate ai piedi degli illustri defunti. Vasi e stoviglie dipinte con rappresentazioni sacre e con scene domestiche presentavano negli angoli delle stanze le forme dei calici di anfore pugliesi e di crateri.
Interno dell’Ipogeo Lagrasta I – Disegno da Bonucci 1854
Una damigella greca, sposata forse ad un cittadino romano, fu l’ultima che ebbe asilo in questo ipogeo. Un’iscrizione latina, incavata nel tufo, ed ora scomparsa, ci faceva sapere che Medella, figlia di Dasmo, fu collocata in quel luogo tre giorni prima delle Calende di gennaio (30 dicembre), sotto il consolato di Lucio Caio Pisone e di Marco Acilio. Questa data segna l’anno di Roma 683, cioè il 70 a.C. L’iscrizione è riportata dal Mommsen al numero 658 o al 390 del IX vol. del C.I.L. pag. 41: «scripta in tectorio in pariete camerae sepulcralis subterraneae. Canusii ». Lo scrittore tedesco attesta di averla veduta sull’intonaco e non incisa nel tufo, sulla parete e non sul muro di una stanza sepolcrale. L’iscrizione, riportata anche dal Ritschel, dal Garrucci e da altri studiosi, è la seguente:
MEDELLA DASM F
SITA AN D III K IANU
L PISONE
M ACILIO COS
<Medella, filia Dasmi, sita ante diem tertium Kalendas Ianuarias, Lucio Pisone Marco Acilio consulibus).
La camera centrale era la principale; qui era sepolto il capofamiglia secondo il Bonucci, che così descrive: «Entrando… si giunge in una stanza funebre, dove tutte le suppellettili si trovarono al loro posto, e a quel modo, che furono situate da 22 secoli. Il pavimento era coperto da una stoffa di oro, il muro dirimpetto, abbellito da un ordine di colonne joniche e le pareti laterali esprimevano a varie tinte ora due finestrini, ora diversi quadri a fondo rosso e bianco… Un fregio ove erano raffigurati dei combattenti a cavallo ed a piedi, vi girava all’intorno. Alcune bende sacre e vesti funebri vi pendevano dai chiodi, ed erano ricamate in oro, a meandri e a rami di ulivo. Nel mezzo della stanza dormiva un eterno sonno il capo della famiglia; esso era disteso su di un letto di bronzo dorato, sostenuto da fregi, da maschere e da geni in avorio. Negli appartamenti vicini s’incontravano i suoi figli e le donne di famiglia. Queste ultime, forse giovani, erano vestite di stoffe di oro, ed avevano la testa cinta di corone di rose anche in oro; altre portavano diademi di smalti e di pietre preziose, lavorate con un’arte infinita. Le loro orecchie erano ornate da pendenti che indicavano i pavoni sacri a Giunone; le braccia cinte da smaniglie che figuravano due serpenti; le dita fregiate da grossi anelli, dei quali uno conteneva un vuoto, destinato a riporvi dei capelli, che venivano ricoperti da un grosso smeraldo, ed ornato alla parte opposta da un purissimo rubino. Una tavola (di marmo?) sontuosa sembrava attendere questi illustri defunti, e nel mezzo di essa sorgevano piramidi di pomi di mela· grane. Il pavimento era sparso di foglie di giacinti e di asfodilli, sacre a Proserpina, e quelle frutta e quei fiori erano di argilla, dipinti di colori vivi e quasi naturali, ed avevano lo stelo di metallo dorato. I piatti, i bacini, le coppe, le lampade erano di vetro, meraviglioso per disegno a mosaico in tutta la sua doppiezza. Il fondo di qualche piatto rappresentava delle ghirlande di fiori; altri piatti offrivano alla vista i contorni, designati in oro, di sontuosi e fantastici edifizi »
Disegno degli Ipogei Lagrasta I e II – Bonucci 1854
Ipogeo Lagrasta II Accanto a questo ipogeo, fu trovato, come ho già detto, quello che fu ritenuto il plesso più importante, perchè conteneva un prospetto di un superbo mausoleo, che alcuni affermarono essere l’ingresso principale, o uno degli ingressi principali di tutti gli ipogei. Era formato da quattro colonne dorico-pestane, con capitelli triglifi a cornicione di marmo ordinario locale, ed era sormontato da altre cinque colonne joniche. Nella parte superiore, al centro, del mausoleo, fu trovata una statua marmorea senza testa, di grandezza naturale, la quale decorava il prospetto. La porta in marmo o in pietra locale era lavorata e divisa in riquadri; tra le colonne doriche spiccavano due nicchie a fondo rosso, in una delle quali fu trovata una piccola statua di terracotta. Il Bonucci afferma che le proporzioni snelle ed eleganti del prospetto erano simili a quelle dell’ingresso delle tombe del re della Licia e di altre numerose dell’Asia Minore.” (…)
Nel 1872 Prosper Biardot pubblica “Les Terres-Cuites Grecques Funebres; Dans Leur Rapport Avec Les Mysteres de Bacchus accompagnes d’un atlas de 54 planches noires et coloriees” (ed. Librairie Firmin Didot Freres, Paris). La pubblicazione è composta di un ampio volume di testo e di un atlante figurato, comprendente ben 54 acquerelli, di cui numerosi nel colore naturale della terracotta, e il resto a più colori. E’ la prima testimonianza visiva della straordinarietà del corredo funerario degli Ipogei Lagrasta. Gli acquerelli raffigurano i 26 pezzi di terra cotta policroma canosina, acquistati da Biardot a Canosa nel 1846, ed oggi esposti al Museo del Louvre nella sezione Art grec classique et hellénistique (Italie du Sud). Di eccezionale qualità esecutiva, gli acquerelli sono una vera e propria istantanea sullo stato di conservazione al momento della scoperta dell’ipogeo Lagrasta I che come abbiamo visto all’epoca sconvolse per dimensioni, qualità e quantità del corredo.
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Dei reperti provenienti dall’Ipogeo Lagrasta ed esposti al pubblico nei più importanti musei del mondo on line si trovano solo poche immagini . Sul sito del Louvre ne sono presenti sei, altri due sono visibili sul sito del Musée des Beaux-Arts de Lyon, altri tre sul sito del British Museum. Purtroppo i musei italiani non hanno materiale fotografico disponibile on line delle loro collezioni , qualcosa ho trovato grazie ad articoli giornalistici riguardanti la presentazione di mostre o riaperture di sezioni dedicate alla Magna Grecia come avvenuto al Museo Archeologico Nazionale di Napoli.
Oltre ai reperti provenienti dall’Ipogeo Lagrasta sul sito del Louvre si possono ammirare, complessivamente, 85 reperti archeologici ritrovati a Canosa. Le connivenze tra trafficanti locali di reperti e antiquari con ottimi agganci, operanti in altre città italiane, hanno arrecato un danno ingentissimo disperdendo reperti di importantissimo valore storico nei più importanti musei del mondo. Visitando il sito del British Museum scopriamo 200 reperti provenienti da Canosa molti dei quali venduti al museo da tal Alessandro Castellani. In rete è presente un altro documento dell’Università degli Studi di Napoli “Napoli da capitale a periferia: archeologia e mercato antiquario in Campania nella seconda metà dell’Ottocento” (pp. 90 – 119) in cui si raccontano le gesta di Castellani,“(…) personaggio del tutto sopra le righe, e con una straordinaria capacità di riconoscere ed ottenere i più pregevoli oggetti da ogni dove, anche se, come oggi sappiamo, questi non erano sempre esenti da sospetti di falsi. (…)”
“(…) Nei quasi 10 anni trascorsi a Napoli, dove si era stabilito, surclassava tutti i suoi concorrenti offrendo materiali provenienti da ogni luogo del Meridione, e non solo , come vasi e terrecotte da Santa Maria Capua Vetere, Cuma, Nola, Calvi, Canosa (…) Egli vi andava a mercanteggiare liberamente. (…) A Napoli le cose erano arrivate a tal punto che fu imbarcata una volta una collezione di antichità, chiusa in moltissime casse, trasportate in barche sul golfo, anzi sul porto, e caricate per l‘Inghilterra o per l‘America sotto gli occhi di tutto il mondo, senza che alcuno pensasse almeno a domandare se ci fossero oggetti che fosse doveroso, nell‘interesse degli studi, salvare per le raccolte pubbliche dello Stato. (…)”
Risultato di questi traffici è che al Metropolitan è esposta una Terracotta pyxis (box) raffigurante una coppia seduta ed Eros straordinariamente somigliante alla scatola raffigurata in un acquarello di Biardot. Nella descrizione del reperto è indicata solo la provenienza da Canosa ma alcuna indicazione è data sullo scavo in cui è stata ritrovata.
La dispersione dei reperti ritrovati a Canosa impedisce la comprensione degli scavi archeologici e la ricostruzione puntuale dei corredi funerari attribuibili agli ipogei in cui sono stati rinvenuti. Inoltre non è possibile contestualizzare i ritrovamenti archeologici ed i loro siti di provenienza rendendo ciascun reperto scollegato dal luogo di origine. Chi visita i più importanti musei del mondo con buona probabilità non conosce Canosa né la sua storia millenaria, mentre chi viene a visitare gli scavi archeologici della nostra Città può solo immaginare la magnificenza dei corredi funerari ritrovati ed esposti altrove, ad eccezione dell’Ipogeo Varrese e del suo corredo visibile nel Museo Archeologico Nazionale di Canosa.
4 giugno 2021 © Canusium Chronicles
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